Interferenza #11 – L'estetica del fallimento.
«Alcuni fallimenti sono progettati. Ma non tutti sanno leggerli.»
Qualche giorno fa, mentre il keynote di Apple al WWDC 2025 veniva liquidato in rete con un’unica parola “Delusione” il titolo in borsa crollava del 2,5% (≈ 75 miliardi $) in pochi minuti.
Niente AI proprietaria. Nessuna demo spettacolare. Nessun assistente vocale in stile film di fantascienza. Per qualcuno, una prova di debolezza. Per altri, un’occasione mancata.
Eppure, nello stesso momento, Apple pubblicava un paper dal titolo volutamente controintuitivo: The Illusion of Thinking. Un messaggio silenzioso, ma preciso
Un titolo che, a guardarlo bene, sembrava rispondere proprio a quella fretta collettiva di giudicare tutto in 48 ore. Anche stavolta , come spesso accade, si è parlato di fallimento. Di Apple che avrebbe “perso il treno”, “cambiato idea”, “rinunciato alla corsa”.
Ma pochi si sono fermati a leggere il contesto. A capire quali assunti stava mettendo in discussione. O quale strategia stesse costruendo nel silenzio.
Ed è da questo riflesso che nasce l’equivoco più pericoloso: non tanto nel fallire, ma nel modo in cui abbiamo cominciato a raccontare ed etichettare il fallimento.
Partiamo da qui
Negli ultimi anni ha preso piede un equivoco affascinante, l’idea che fallire sia, in fondo, una cosa bella.
Una prova di coraggio.
Un badge da collezione.
Un tempo era il mantra della Silicon Valley: fail fast, fail often, fail better.
E oggi è diventato un’estetica: caption brillanti, storytelling ben confezionati, narrazioni personali che trasformano ogni inciampo in epica da post virale.
Ma c’è un dettaglio che cambia tutto.
Questa narrazione funziona solo se riguarda se stessi.
Se è il tuo fallimento, puoi plasmarlo. Puoi renderlo significativo, persino eroico.
Ma se a “fallire” è qualcun altro, il tono cambia: diventano “incompetenti”, “lenti”, “superati”.
È un doppio standard ormai normalizzato: fallire va bene, ma solo se sai raccontarlo bene.
Eppure chi ha davvero fallito, in un’impresa, in un progetto, in una relazione, sa bene che non c’è nulla di romantico in certi momenti.
Fallire fa male. Fa schifo.
E non è questo il punto.
Il punto è un altro: non tutti i fallimenti sono uguali.
C’è un fallimento che nasce dalla superficialità.
E c’è un fallimento che era previsto, disegnato, persino voluto.
Un fallimento che non è uno sbaglio, ma un test.
Un tentativo per capire dove si spezza l’ipotesi.
Un modo per raccogliere frizioni e indicazioni.
La differenza, come sempre, è nella progettazione.
Se il fallimento è una fase nel processo, allora è utile.
Se è una sorpresa che ti travolge, allora è solo un danno.
Nel mio lavoro, negli anni, ho imparato a distinguere. I peggiori errori sono stati quelli che non avevo contemplato. Ma ci sono state scelte di team, di prodotto, di strategia che sapevo potessero andare storte. E lì, quando è successo, non mi sono sentito un fallito. Avevo una soluzione B, e anche una C, come ripete da sempre mio fratello.
E non mi sono sentito un fallito, ma uno che stava raccogliendo dati.
Per correggere. O per confermare. O per crescere.
E non succede solo a livello personale.
Succede anche nei prodotti, nelle aziende, nelle culture.
Il punto è che il mercato, e la narrazione attorno, non sempre tollera l’errore come apprendimento. Pretende tutto subito. Pretende scintille. Ma costruire qualcosa che regge nel tempo non ha quasi mai l’estetica del fuoco d’artificio.
Quello che Apple ha fatto, forse, è stato non giocare al gioco dell’attesa, anche questa volta. E il pubblico non ha retto il silenzio.
Ma in quel silenzio, c’era una direzione, non un ritardo.
Non l’assenza. Un altro ritmo.
Allora, la domanda da farsi è più ampia: che cos’è davvero il fallimento?
Un esito?
O una fase?
Una frattura?
O un test di tenuta?
Un’etichetta?
O un’indicazione di rotta?
Se fallire significa aver provato qualcosa che non ha funzionato dentro un progetto consapevole, allora non c’è niente da vergognarsi. Anzi, c’è molto da imparare.
Ma se non lo mettiamo in conto prima, rischia di travolgerci.
E di inchiodarci a una narrativa tossica: quella che o vinci subito, o non vali nulla.
Forse dovremmo smettere di mitizzare il fallimento.
Forse dovremmo iniziare a dare valore all’apprendimento che arriva da un errore ben contenuto.
E imparare, invece, a disegnarlo bene il processo di errore.
A contenerlo. A leggerlo. A prepararlo.
Serve un’educazione al “fallire” bene.
Come fanno gli atleti quando cadono sapendo come atterrare.
Come fanno i team quando rilasciano una versione sapendo che qualcosa non andrà.
Come fanno i pensatori quando si mettono alla prova con una tesi che potrebbe essere smentita.
In fondo, non si tratta di sbagliare meglio.
Si tratta di saper gestire un fallimento, senza rompersi.
Perché un errore previsto è una risorsa.
Un fallimento non gestito è solo rumore.
“Chi fallisce senza imparare, si ferma.
Chi sbaglia con metodo, prepara la svolta.”