Interferenza #6 – Vedere non basta
«Osservare è una forma di presenza. Vedere è solo esposizione.»
Stavo facendo una passeggiata in montagna con la mia famiglia qualche giorno fa. Ci siamo fermati su un punto panoramico. Era uno di quei momenti in cui tutto si allenta.
Il passo rallenta da solo, il silenzio fa spazio, la respirazione, che in salita ovviamente accelera, sembra invece trovare un ritmo più profondo. Tutto si connette, anche dentro. Mia moglie dice che quando sono in questi contesti ho un sorriso indelebile.
Io ero lì, con lo zaino appoggiato e gli occhi rivolti verso la valle.
I miei figli, invece, erano qualche passo più in là, con la testa china sul telefono, le dita che scorrevano rapide e lo sguardo incollato allo schermo.
A un certo punto, quasi d’istinto, ho detto:
“Guardate!”
Hanno alzato la testa con aria un po’ infastidita, buttato uno sguardo veloce verso l’orizzonte, giusto il tempo di seguire la direzione del mio dito, poi uno dei due si è voltato verso di me e ha detto:
“Ora che ho visto?”
Ho sorriso.
Non per la risposta in sé, che era logica, coerente, perfino non irriverente (cosa non sempre scontata alla loro età) ma per ciò che conteneva: la convinzione che guardare e vedere fossero la stessa cosa.
Che bastasse spostare gli occhi un secondo, per aver già fatto.
Ed è lì che ho sentito una frizione, esattamente sul punto tra guardare e vedere.
Perché, sì, avevano visto. Ma non avevano guardato. E io mi sono accorto che stavamo usando la stessa parola per dire due cose molto diverse.
Mi capita spesso anche nel lavoro. Scorro documenti, leggo numeri, partecipo a riunioni, parlo con persone che conosco da anni. Vedo tutto. Ma non sempre guardo davvero.
E probabilmente non capita solo a me.
Guardare richiede un gesto in più.
Un’intenzione. Un rallentamento.
È diverso dal semplice atto di registrare ciò che hai davanti.
Vedere è funzione. Guardare è presenza.
Viviamo esposti a migliaia di informazioni.
E in questa esposizione continua, l’attenzione si frammenta.
Il rischio non è solo perdere il dettaglio. È perdere la profondità.
Lo vedo nei team, nei progetti, nelle conversazioni veloci: le cose funzionano, ma manca qualcosa.
Manca lo sguardo che si ferma davvero.
Nel design, un’interfaccia può essere visivamente perfetta, ma se non è guardata dal punto di vista dell’utente, qualcosa non scorre.
Nel lavoro, puoi eseguire bene un progetto, ma se non lo riguardi ogni tanto con occhi nuovi, perdi contatto con il perché.
E nelle relazioni, puoi vedere le persone ogni giorno, ma se non le guardi, smetti di notare quando cambiano tono, postura, ritmo.
Il punto non è diventare ossessivi.
Ma non normalizzare l’automatismo.
Guardare è una forma di cura. E in un mondo che ci abitua a vedere tutto in superficie, fermarsi un attimo in più è già un modo per tornare in contatto con le cose che contano.
Da quella passeggiata non ho portato a casa una lezione, ma una domanda che mi torna addosso più spesso di quanto pensassi. Non riguarda solo i paesaggi, ma anche le persone, i progetti, le cose che faccio tutti i giorni: quegli spazi in cui mi sembra di sapere già tutto, di aver già visto tutto, e invece qualcosa sfugge.
Non è una questione di attenzione.
È che quando smettiamo di guardare davvero, cominciamo a scivolare via da ciò che conta.
E così, in certi momenti, mentre ascolto qualcuno parlare, mentre rileggo un’idea, mentre osservo un gesto, mentre ascolto il suono del silenzio in cui mi trovo, mi chiedo:
“Lo sto solo vedendo? O lo sto davvero guardando?”
Non sempre so rispondere.
Ma solo farmi la domanda cambia il modo in cui resto lì.
“Vedere è accorgersi che qualcosa c’è. Guardare è capire cosa ti sta dicendo.”
Queste “interferenze” hanno una capacità evocativa di rara intensità ed efficacia, grazie Fabio