Interferenza #8 – La cosa di tutti.
«Appartenere non è subire un’identità. È costruire una direzione.»
Questa mattina, mentre camminavo nel silenzio del parco vicino casa ancora semi addormentato, ripensavo a mia figlia. Poco prima, in cucina, prima di uscire, aveva detto con il tono contento di chi sa che il lunedì può aspettare:
“Oggi si sta a casa, è festa.”
Le ho chiesto, senza insistere:
“Sai perché è festa?”
Mi ha risposto qualcosa sul 2 giugno, sulla Repubblica. Una risposta di quelle che si danno per chiudere la domanda, far vedere che sai, ma non per aprire un pensiero.
Ma quella parola, Repubblica, mi è rimasta addosso per tutta la camminata.
Repubblica vuol dire, letteralmente, res publica: la cosa di tutti.
Ma oggi, nel modo in cui lavoriamo, ci muoviamo, costruiamo, quante delle cose che facciamo ci restituiscono davvero la sensazione di far parte di un tutto?
Viviamo dentro un sistema in cui essere indipendenti è il massimo traguardo. In cui si misura la forza sulla base della non necessità dell’altro. In cui tutto ciò che è collettivo sembra rallentare, complicare, intralciare. Ma soprattutto in cui il bene comune sembra esser passato in secondo piano.
Eppure, siamo interdipendenti. Sempre. Nel lavoro, nella famiglia, nei progetti. Nessun traguardo, se ci pensiamo, è stato raggiunto da soli.
Mi capita spesso di pensare alla parola “Repubblica” anche fuori dal perimetro festa e istituzione.
Quando seguo un progetto che coinvolge più persone. O quando affianco qualcuno che ha un’idea e vuole metterla a terra e portarla sul mercato. O ancora quando, con mia moglie, ci chiediamo che direzione stiamo dando, noi per primi, all’educazione dei nostri figli.
Ecco, in quei momenti, mi sento addosso quel senso di qualcosa che non è mio, ma che passa anche da me.
Un’azienda, un’idea, una famiglia, una comunità: sono tutte forme di Repubblica.
Non nel senso cerimoniale del termine.
Ma nella sua essenza più semplice: prendersi cura di ciò che è comune.
Tenere insieme.
Avere memoria dei passaggi.
Fare attenzione ai margini, non solo al centro.
E soprattutto: lasciare le cose un po’ meglio di come le abbiamo trovate.
Il tempo in cui viviamo, è fortemente centrato sulla personalizzazione, feed, offerte, esperienze. Tutto centrato su di noi, come singoli.
È facile quindi pensare che il “noi” sia diventato superfluo, decorativo: e invece è proprio lì che si gioca la tenuta, il collante, la coesione con il tutto.
Perché se smettiamo di chiederci che tipo di noi stiamo costruendo, ogni io rischia di galleggiare. Senza radici, senza direzione, senza comunità.
Oggi, 2 giugno, non è solo la Festa della Repubblica.
È un giorno che ci ricorda che le cose funzionano solo se tutti contano qualcosa. Che le strutture più solide non sono quelle perfette, ma quelle in cui ognuno si sente parte.
E che il senso di un progetto, piccolo o grande, si misura anche da quanto viene restituito, e non solo da quanto si ottiene.
La Repubblica siamo noi.
Anche quando nessuno ci guarda.
Anche quando nessuno ce lo chiede.
Anche quando, per un attimo, sembra che non serva.
Perché ogni giorno, anche senza accorgercene, lasciamo un segno dentro qualcosa di più grande.
Sta a noi scegliere quale segno lasciare e come sentirci parte di questa “cosa”.
“La Repubblica non è ciò che celebriamo una volta l’anno.
È ciò che coltiviamo, ogni volta che scegliamo di esserci davvero.”