Interferenza #14 – La disciplina di dimenticare
«Non è il ricordo a renderci intelligenti. È la capacità di scegliere cosa tenere e cosa lasciare andare.»
Qualche giorno fa ho cancellato tutto.
Note, appunti, idee, riflessioni accumulate in anni di lavoro e pensiero. Migliaia di file, da Note, Link ad Apple Notes, passando per ogni tool che prometteva di aiutarmi a ricordare meglio. Comprese un po’ di pagine di Moleskine con appunti di ogni tipo.
Ho selezionato tutto.
E poi: delete.
Non c’è stato un errore tecnico. Né un attacco hacker.
L’ho fatto io. Volontariamente.
E per la prima volta dopo tanto, ho provato una strana forma di leggerezza.
Mi ero costruito, negli anni, un sistema raffinato per non dimenticare nulla: un secondo cervello, come lo chiamavo quando facevo riferimento a questo strumento.
Un archivio personale di pensieri, citazioni, idee, progetti, riflessioni. Ogni spunto catalogato. Ogni insight ben collegato. Un ecosistema ordinato che avrebbe dovuto potenziare il mio pensiero. E forse per anni è stato così.
E invece, a un certo punto, soprattutto negli ultimi tempi, ho iniziato a sentire l’effetto opposto: come se quelle note non mi servissero più per pensare, ma per rimandare. E la sensazione ricorrente è come se mi tenessero ancorato costantemente a qualcosa da fare, di già pensato, di già elaborato.
Ero lì, davanti a uno schema perfetto, che però non mi diceva più niente.
Un po’ come rileggere una vecchia lista della spesa: precisa, ordinata, ma ormai inutile.
Mi sono accorto che stavo leggendo per archiviare. Ascoltando per estrarre.
Scrivendo per conservare, non per capire. E che ogni esperienza, invece di lasciarmi qualcosa, diventava solo “materiale” da incasellare nel sistema.
Taggare era diventato più importante che riflettere.
Collegare più importante che approfondire.
Ho iniziato a pensare come pensano le macchine. In blocchi. In nodi. In link.
Ma la mente non è fatta così.
La mente dimentica. Sbanda. Associa male.
Torna su un’idea solo quando serve davvero.
E quella vulnerabilità, quella imperfezione, è ciò che rende il pensiero umano: vivo.
È stata una sensazione strana, all’inizio.
Come togliere una protesi che ormai sembrava parte di te. Poi però è arrivata una specie di vuoto fertile. Come quando svuoti un garage e ti accorgi che non era pieno di ricordi: era pieno di zavorre.
Ho tenuto solo una nota. Una.
Si chiama: “WHAT”.
Perché "what" e non "why" mi sono domandato. La scelta di “what” come nota, come parola chiave, come ancoraggio, è una dichiarazione di intenti.
"WHY" è una domanda di senso. "WHAT" è una scelta di priorità.
Quando sei in piena elaborazione, in ricerca, in costruzione di visione, il why ti guida: ti chiedi perché fai ciò che fai, da dove nasce, dove porta.
Ma quando ti stai liberando da un eccesso di stimoli, da un sovraccarico di strutture mentali, da riflessioni del passato, quello che ti serve non è un altro strato di filosofia.
È concretezza.
“what” ti obbliga a decidere. A nominare l’essenziale.
A scegliere cosa ti serve oggi , non cosa giustifica tutto.
È asciutto. È presente. È operativo.
Scrivere “what” su un foglio per me non è un atto esistenziale.
È un esercizio di chiarezza temporanea:
Cosa conta davvero adesso?
Cosa voglio ricordare?
Cosa non posso permettermi di ignorare?
Il “why” ti porta in profondità, ma questa l’ho affrontata in questi anni.
Il “what” ti riporta a galla, e a volte, è proprio lì che serve stare.
Ci scrivo poche cose: tre righe al massimo. Questa è la regola.
Solo ciò che vale la pena ricordare davvero.
Il resto? Se conta, tornerà.
In un contesto che ci spinge a salvare tutto, trattenere tutto, documentare ogni attimo, e che è in grado di suggerirti tutto quello che vorresti, scegliere di dimenticare è un atto quasi rivoluzionario.
Per me, è diventato un modo per tornare a vivere la conoscenza, la consapevolezza e non solo a gestirla.
Un modo per far passare quella riflessione di nuovo attraverso il corpo, la voce, la conversazione, la camminata distratta. Un modo per fare spazio a quello che conta, anche se ancora non sai cosa sarà.
Dimenticare non è smettere di sapere.
È togliere il rumore di fondo, per sentire meglio cosa sta arrivando.
“Non tutto ciò che viene archiviato è destinato a durare.
A volte, ciò che dimentichiamo è proprio ciò che ci restituisce libertà.”
Riconosco in questa tua “interferenza” molte riflessioni sparse che personalmente sto raccogliendo sul “lasciar andare le cose”, sopratutto quelle che comunque hai ormai interiorizzato.
Curioso che questo avvenga sul “registro emotivo personale” in un contesto “data driven”, orientato invece a rendere disponibili “scaffalature digitali” sempre più accessibili.
Questo essere in qualche modo “sovraccarichi” dell’esigenza di conservare ci fa perdere il gusto del “collezionare”, del comprendere il vero motivo del voler accanto, a portata di mano, quel libro, quella foto, quel pensiero, e non altri.
Mi viene in mente una riflessione di Alessandro Baricco, che pur nascendo da un altro contesto ancora più intimo, mi ha comunque condotto sul solco di questa nuova “interferenza”: “C’è questa cosa che non avevo mai capito nella vita e che ho scoperto molto tardi ed è che ti giochi una buona quantità delle tue possibilità di stare sul pianeta Terra con felicità sulla capacità che hai di lasciar andare le cose”.
Grazie Fabio per questo nuova stimolante occasione di riflessione.